Una sera a Tokyo, prima di tornare

Siamo seduti al piano superiore di un fast food. Non è tardi, eppure qui il buio sembra calare prima, rispetto al nostro paese. Il cielo è già nero, percorso dalle luci di insegne, fari di automobili, finestre accese. Ueno, una delle zone che preferiamo, di Tokyo. Oltre i palazzi che vediamo alla nostra destra si nasconde la Tokyo Sky Tree, che abbiamo visto spuntare, rilucente di un bianco lattiginoso, in fondo ad una strada, non appena usciti dall’hotel.

Domani ci dirigeremo verso Osaka, e da lì vicino all’aeroporto del Kansai, per tornare a casa. Avremmo potuto trascorrere l’ultima sera a Tokyo confondendoci con la gente nel famoso incrocio di Shibuya, o annegare gli occhi nella vitalità al neon di Shinjuku. Invece, per una serie di circostanze, siamo rimasti qui. Seduta alla mia destra, una ragazza legge un libro, reggendolo alto dinanzi a sé con entrambe le mani. Ogni tanto, con calma, sorseggia del frappè, posando il volume e tenendo il segno con le dita tra le pagine. Dietro di noi, un uomo dorme di gusto, la testa appoggiata alla valigetta che ha messo sopra il tavolo. La strada principale, oltre la vetrata davanti alla quale siamo seduti, mostra scene del quotidiano. Un locale con le porte automatiche che si aprono e si chiudono spesso, lasciando uscire impiegati in camicia bianca che esitano oltre la soglia, scambiandosi saluti, inchini e convenevoli prima di tornare a casa o proseguire nel giro delle bevute. Un cantiere aperto, uno dei tanti che abbiamo notato in giro per la città, nel fermento delle prossime Olimpiadi. Gli operai, elmetti in testa e bastoni luminosi per avvisare gli automobilisti, arrivano per il turno notturno e fanno una breve riunione, ascoltando attentamente il capocantiere, che legge diligentemente qualcosa da una cartelletta.

Un ragazzo arriva e prende posto alle nostre spalle. Apre un portatile, infila le cuffie e comincia a smanettare. Un lieve odore di sudore, da adolescente, si diffonde nell’aria. Oltre le scale che scendono, nell’altra saletta, vi sono uomini in giacca e cravatta che scherzano tra loro, insieme ad una bella donna in tailleur, e un giovane in tenuta sportiva che mangia, serio e meditabondo.

Usciamo dal fast food, salutati dai due ragazzi dall’aria sorridente e un po’ sfrontata che servono al bancone. Una volta sulla strada, incrociamo un grande torii di pietra, che conduce ad una via laterale. Poco oltre, un santuario, chiuso a quest’ora serale. Vicino al luogo sacro, un bar in stile moderno, al momento senza clienti, l’entrata incorniciata a sua volta da un piccolo torii. Il proprietario, in jeans, camicia bianca e gilet, se ne sta seduto su uno degli sgabelli all’esterno, con un laptop appoggiato alle ginocchia. Entriamo nell’area del santuario. Il coro dei grilli, penombra animata qui e lì dalla luce delle lanterne. Accanto all’edificio principale, una galleria di piccoli torii rossi onora un angolo sacro ad Inari. Dal lato opposto, una roccia abitata di decine di piccole statue di volpi dagli sguardi severi. Mentre stiamo uscendo, una coppia di mezza età si ferma a pregare.

Attendiamo in silenzio e a rispettosa distanza finchè non hanno finito, poi mi avvicino anch’io, rivolgendo la mia preghiera. Tornando verso l’albergo, un po’ storditi per la stanchezza di queste due settimane del nostro quinto viaggio in questo paese, notiamo uno strano edificio tra i condomini: ha il tetto simile a un tempio, ma nel complesso non ne ha l’aspetto. Dopo qualche breve istante mi rendo conto che è un bagno pubblico: dall’esterno, rivelati appena dalle tendine dell’ingresso, si notano il piccolo frigo con le bibite fresche, e le ceste per riporre gli abiti. Una signora siede alla reception, guardando ogni tanto lungo la strada dalla finestra.

Anche senza parlarci sentiamo quello che entrambi stiamo pensando: questo è il Giappone che amiamo. Persino a Tokyo, la città ricca di luoghi iconici dove sembra quasi essere obbligati ad andare, per dire di averla vissuta veramente, per dimostrare chissà cosa, o semplicemente per provare l’ebbrezza di perdersi nella grande corrente, sentiamo che la vera bellezza, il vero conforto per il nostro cuore, è camminare piano, senza fretta e senza mete lungo queste strade, mescolandoci silenziosamente e discretamente con la gente, grati anche solo di osservare. Ognuno vive le città in modo unico, seguendo le proprie inclinazioni, i propri desideri, talvolta le forze che ha a disposizione nel momento in cui vi si immerge. Le esperienze e le sensazioni sono tante quante sono le persone che le provano.

E in questa sera un po’ malinconica, con gratitudine e rinnovato amore, diamo il nostro arrivederci al Giappone.