Lacrime di donna

Primo viaggio in Giappone, nell’ottobre del 2013. Io e mio marito, sposati da nemmeno tre settimane, ci troviamo a Kyoto. Siamo seduti, una sera, in uno dei ristoranti della catena Yoshinoya, spesso affollati da giovani ed impiegati che con cifre modiche possono godere di pasti sostanziosi e veloci.

Stiamo attendendo il nostro set con riso, carne e pollo fritto, quando vedo una giovane donna, avvolta in un elegante tailleur nero, seduta a qualche tavolo di distanza dal nostro. Senza toccare nulla del cibo che ha davanti, sta scrivendo quietamente sullo smartphone, e piange senza fare alcun rumore, con la testa un po’ china, i lunghi capelli neri che le nascondono appena i lati del volto serio ed assorto. Mi trovo ad immaginare cosa potrebbe esserle capitato, o cosa stia succedendo nella sua vita. Senza farmi notare, per non metterla in imbarazzo, la osservo di tanto in tanto. Ha l’espressione dignitosa e decisa di chi ha appena preso una decisione cruciale per il proprio percorso personale, ma forse ha dovuto sacrificare qualcosa, o sta ancora combattendo contro qualcosa lungo la sua via. Chissà, chissà…

Estate appena trascorsa, porto di Moji, a poca distanza da Kokura. E’ la sera dell’Obon, la festa dei morti. Nell’ultimo giorno di questa ricorrenza, si accendono lanterne per indicare ai defunti la via del ritorno verso l’altro reame, dopo che per alcuni giorni è stato loro concesso di tornare in visita presso i propri famigliari. Seduti su una panchina, a una rispettosa distanza, osserviamo la gente posare sulla banchina del porto le lanterne accese, fitte di caratteri dedicati al proprio caro che ne decorano la carta sottile. La sera cala velocemente, e da azzurro il cielo diviene sempre più cupo, confondendo il suo colore con l’ombra scura delle colline boscose intorno alla cittadina. Spuntano le stelle, la luce dorata delle lanterne illumina i volti dei bambini che si chinano a guardarle, della gente che indica la propria, parte di una grande composizione che disegna lo spazio vicino all’insenatura. La voce di un monaco buddhista che intona le preghiere per l’occasione risuona solenne nel silenzio, commentata solo dallo scrosciare leggero dell’acqua. Seduta su un muretto, lontana rispetto alla folla di persone che ascolta la preghiera, una donna se ne sta a testa china nella penombra, con una bambina sui sette/otto anni seduta accanto. Il suo viso è seminascosto da un fazzoletto che tiene premuto sulla bocca, sta piangendo in silenzio. La bambina è composta e pensierosa, guarda dinanzi a sè le lanterne accese e la gente. Entrambe stanno porgendo il loro saluto, il loro commiato, a qualcuno di caro. Mi domando chi potrebbe essere stato. Genitore, nonno, marito, o figlio, deve essere stato qualcuno di amato, che manca loro terribilmente. Chissà, chissà…

Queste due scene mi sono rimaste profondamente impresse, tra quelle viste durante i miei viaggi in Giappone. Donne di età diverse, in luoghi diversi, in contesti del tutto differenti. Accomunate dal momento in cui il pianto non si riesce a trattenere, pur se composto e silenzioso, pur se il dolore è espresso con dignità e stoicismo, per la consapevolezza che ognuno ha le proprie difficoltà, e quelle personali non necessariamente devono avere più peso o risalto rispetto a quelle degli altri. Persone che conducono una loro battaglia per proseguire nella vita quotidiana, che riserva spesso un pari numero di gioie e dolori. In una società dove, come nella nostra, anche solo l’essere donna è spesso un percorso ad ostacoli.

E di fronte a questi momenti in cui ci si rende conto che, oltre le differenze e le distanze, siamo tutti esseri umani alle prese con l’esperienza del vivere, non si può che pensare che ci si dovrebbe tutti stringere in un ideale abbraccio, di comprensione e simpatia intesa nel senso letterario del termine.