Amare Kyoto

Mi è successa una cosa inaspettata a Kyoto durante questo ultimo viaggio. Ho compreso, dopo aver sempre affermato in modo convinto il contrario, che la preferisco a Tokyo.

Qualche anno fa, ben prima che io avessi mai messo piede in Giappone, una mia collega di lavoro laureata in giapponese e che aveva trascorso un periodo di studio a Kyoto, durante una delle nostre chiacchierate sul Giappone mi aveva detto che secondo lei io, con il mio carattere e i miei gusti, mi sarei trovata benissimo in questa città. Per questo, la prima volta che sono stata in Giappone durante il mio viaggio di nozze, non vedevo l’ora di vedere Kyoto. Già la prima tappa, Tokyo, mi aveva totalmente affascinata. Con Kyoto mi aspettavo un folle amore, con i suoi legami con la tradizione che immaginavo molto più palesi rispetto a Tokyo. Invece, non è stato così.

Certo, a Kyoto vi erano dei luoghi innegabilmente incantevoli. Ma c’era qualcosa che non mi convinceva del tutto, un’aria da città europea, in alcuni suoi punti, che mi lasciava un po’ perplessa, e in altre zone un’aria quasi artefatta, che pareva fatta solo per mostrare quello che poteva piacere ai turisti. Inoltre, la trovai molto più complessa da girare rispetto a Tokyo, con meno possibilità se non la metropolitana, tra l’altro non così capillare come nell’odierna capitale, e i bus dai posti a sedere minuscoli e sempre affollati. Senza alcun dubbio, tornata dal primo viaggio, indicai Tokyo come mia città preferita.

Nel viaggio dell’anno successivo decisi di tornare a Kyoto, per vederla meglio (molti luoghi l’autunno dell’anno precedente li avevamo visti con il buio, e quella prima impressione non mi aveva lasciata soddisfatta, ero certa di essermi persa qualcosa). Era agosto, il caldo e l’umido terrificante non aiutavano certo a godersi appieno la città. Oltretutto, in alcuni momenti mi sembrava di essere in Italia, perché ero sempre circondata da turisti italiani con i loro commenti più o meno consoni. Dalle esperienze successive avrei constatato che i turisti italiani sono molto più educati di altri, ma all’epoca ero un po’ snob e provavo un certo fastidio. Appena arrivata avevo fatto un volo sulle scale della metropolitana e mi ero storta un piede. Inoltre, sempre lo stesso giorno, visto che non sono una cima neanche con un altro tipo di scale, ovvero quelle sulle mappe, avevo calcolato male i tempi per raggiungere il Nijo, il palazzo dello Shogun, credendolo “Proprio dietro l’angolo” rispetto al nostro hotel. Ci eravamo arrivati mentre stavano chiudendo i portoni, dopo più di un’ora di camminata facendo un giro assurdo. Poi abbiamo rimediato il giorno dopo, scoprendo che era molto più semplice arrivarci in autobus.

Il terzo viaggio si limitò a Tokyo e dintorni, visti i pochi giorni a disposizione. Durante il quarto ci riprovai con Kyoto. E qui cominciò pian piano a succedere qualcosa. Ce la prendemmo con calma, evitammo un po’ a malincuore alcuni dei posti iconici (c’è da dire che li avevamo anche già visti precedentemente) e cominciammo a camminare lungo le strade, talvolta senza meta. Prendemmo dei bus che trovammo poco affollati, perché non diretti verso i templi o i quartieri più famosi. Un giorno, per andare al palazzo imperiale, restammo parecchio su un bus che faceva un giro più lungo, perdendosi lungo le vie di quella città quotidiana che al turismo non interessa più di tanto. Anche lungo quelle vie, spuntava un tempio dopo l’altro, la storia che ti accompagnava ad ogni passo. Un pomeriggio lo trascorremmo camminando per Pontocho e restando a lungo seduti lungo il fiume Kamo, senza quell’ansia del “Cavolo, non posso stare qui fermo perché devo vedere diecimila cose assolutamente da non perdere”. In quel viaggio cominciai ad amare davvero Kyoto, a capire che forse semplicemente mi era servito più tempo per vederla davvero, e che quel vederla non significava per forza avere la fortuna di scorgere una vera geisha a Gion (cosa che mi era successa durante il primo viaggio, una sera. Io restai praticamente paralizzata e con le lacrime agli occhi, mentre gli altri del gruppo, più svegli di me, le fecero delle foto) o il Kinkakuji, o il Kiyomizudera. Per me era una questione di cominciare a sentirla.

Quando, durante il quinto viaggio, non ci fermammo a Kyoto, ne sentii la mancanza. Passando davanti alla sua stazione, mentre dal Kyushu stavamo viaggiando verso Tokyo, provai una piccola fitta di nostalgia.

E arriviamo a qualche settimana fa. Kyoto, di nuovo. Una Kyoto soffocata dal turismo e dai suoi flussi che oserei dire sono almeno quadruplicati rispetto a quando la vidi per la prima volta, nel 2013. Folle e comportamenti più o meno folli. Arashiyama: per prendere il treno da Kyoto la banchina completamente coperta di gente in attesa. La foresta di bambù fatta al rallentatore, bloccandosi ogni tre passi perché i turisti devono posare per le foto. Negozi di noleggio kimono moltiplicati, e di conseguenza un sacco di persone agghindate di tutto punto che devono farsi i servizi fotografici o i video. Alla sera, con l’accensione delle lanterne per l’illuminazione invernale, c’era il senso unico e una selva di teste, tanto che più che guardare i bambù illuminati dovevi stare attento a non pestare i piedi a qualcuno. Bisogna cercarsi dei luoghi tranquilli per potersi finalmente rilassare e godersi il paesaggio. E in realtà basta poco per farlo: allontanarsi dai luoghi più gettonati per le foto. Scostarsi appena dal flusso, quando possibile, con pazienza. Ignorare la gente che non guarda affatto il luogo, ma vuole solo una foto in cui compaia la sua faccia con il luogo alle spalle. Cercare di capire che forse l’entusiasmo per la prima esperienza porta a strafare in tal senso, anche se questo non giustifica certo le urla sguaiate continue, il passare davanti spintonando, la spazzatura abbandonata in giro, l’ignorare i divieti entrando dove non si può entrare né fotografare per farsi foto in posa, farsi i selfie e fare casino con tutta la famiglia davanti a delle tombe, far sguazzare i figli pestiferi sulle vasche per la purificazione come fossero al parco acquatico, e via dicendo.

Al Fushimi Inari, stesse scene con variazioni su tema. Anche lì, oltrepassata una delle prime gallerie di torii, dove sono più bassi e più fitti, quasi tutti i turisti imboccano la galleria parallela che riporta indietro, soddisfatti delle foto e dei video. Quindi si può procedere un po’ più tranquilli lungo la montagna. Sempre con il rischio di essere lì in mezzo alla foresta nel silenzio e sentire improvvisamente un turista che urla come un pazzo per parlare in tono normale con i suoi compagni, robe da far rizzare il pelo alle volpi di pietra che ti circondano. Poi, tornando nel centro di Kyoto, questa volta sono rimasta davvero sconvolta dalle zone intorno a Gion. C’erano una sorta di vigili che dirigevano i flussi, all’ingresso del famoso hanamachi. Mi ha ricordato Venezia, durante i momenti peggiori del Carnevale, calli compresse di gente, l’impossibilità talvolta di arrivare in piazza san Marco, per l’esasperazione. Anche le strade intorno, sotto le gallerie con i negozi, erano quasi impraticabili. Ce ne siamo andati in vie secondarie, per vedere dei templi che non avevamo visto, ed era molto più tranquillo. Ma ci aspettava l’esperienza dell’autobus per tornare in centro, una volta usciti dall’area intorno al Kiyomizudera. Marciapiede totalmente pieno di gente che come noi aspettava il bus. I passanti dovevano spintonare per poter proseguire lungo la via. E ovviamente ti becchi dai residenti velate lamentele ed occhiatacce anche tu, che cerchi di stringerti per lasciarli passare, mentre la maggior parte degli altri turisti se ne sta spaparanzata e continua a fare confusione o a sembrare del tutto ignara del fatto di trovarsi in mezzo alla gente e di occupare uno spazio fisico. Per percorrere quelli che forse non erano nemmeno due chilometri, il bus ci ha messo quasi 40 minuti. Era in pratica sempre fermo, nel traffico che non avanzava. Decisamente sarebbe stato meglio andare a piedi, se non fosse che avevamo camminato per tutta la giornata ed io avevo le gambe che mi friggevano. Momenti in cui imprechi, magari tutto sudato per il caldo all’interno del bus e per il turista che da un quarto d’ora ti ha piazzato lo zaino contro le costole (e che una volta incastrato stile mattoncino del Tetris dentro il bus non può fisicamente muoversi per toglierlo) e in cui giuri di non tornare mai più a Kyoto. Poi passa, e fai tesoro dell’esperienza. Quando sai, cerchi di evitare di imbottigliarti in certe situazioni.

Nonostante i disagi per l’affollamento, mi sono resa davvero conto di amare Kyoto, più di Tokyo. Perché ad ogni passo si può trovare quel sapore di antico che amo, anche se non è sempre così palese. Perché la sua parte più moderna offre l’impressione di essere comunque restata più a dimensione umana, sembra sempre di essere in una piccola città, anche se non lo è affatto. Perché mi è entrata nell’animo, nel corso degli anni, con pazienza e discrezione, invitandomi ad andare oltre la prima impressione, così diversa dall’idea che mi ero fatta di lei, che credevo dovesse essere tutto quello che sognavo del Giappone. Ora Kyoto è lì, un mondo di paesaggi radicati nel mio cuore, e la bellezza che ho respirato, anche se talvolta era scalfita dall’irritazione per i flussi che sembrano troppo per il suo fragile equilibrio, è talmente unica da farmi ripensare ad ogni momento con nostalgia.