La mia prima geisha

Avrete sicuramente capito che amo il mondo legato alle geisha e quanto rappresentano. Tradizione, un tipo di estetica che trovo affascinante e profondo. Preziose custodi dedite alle arti il cui ruolo viene continuamente frainteso. Ricordo la prima geisha vista dal vivo. E’ stato un attimo fugace, durante il mio primo viaggio.

Era un periodo in cui ancora mi confondevano le turiste abbigliate come delle geisha, che a Kyoto si facevano portare in giro in risciò per farsi ritrarre nei luoghi più caratteristici della città. Le trovavo comunque bellissime, ma percepivo che c’era qualcosa di strano. Non credevo alla mia fortuna di essere riuscita a vederne subito, così, in pieno giorno e in mezzo a tanta gente. Difatti non si trattava di vere geisha. In questi giorni sto rivedendo alcune foto di allora, l’ottobre del 2013, ed oltre ad essere stupita dal minor numero di persone che c’era allora lungo le strade, mi stanno tornando in mente le tante cose che ancora non sapevo.

Sempre più, negli ultimi anni, si vedono video di una Kyoto in cui geisha e maiko vengono praticamente braccate dai turisti, pronti a immortalare ogni loro movimento non appena queste mettono un piede fuori dagli okiya o dai locali in cui hanno terminato di lavorare. Mi metto nei loro panni e penso a quanto possa essere stressante ritrovarsi costantemente seguite. Certo, sei in qualche modo il simbolo di un certo tipo di Giappone tradizionale, ma un conto è sapere di essere sotto lo sguardo di tutti durante delle occasioni particolari in cui ti stai esibendo, un altro dover mettersi a correre perché un muro di gente non ti lascia quasi proseguire lungo la tua strada.

Non per niente sono stati creati volantini atti a sensibilizzare i visitatori non solo al rispetto di una città particolare come Kyoto, ma anche al comportamento corretto da tenere verso i suoi abitanti. Il paragone con Venezia e le assurdità che molti si sentono legittimati a fare durante le vacanze è sempre più adatto.

Tornando al mio incontro con la geisha, accadde in una sera, in cui con il gruppo con cui ho fatto il mio primo viaggio stavamo facendo una passeggiata nei pressi di Gion. Non c’era praticamente nessuno. Ricordo di essere stata colpita dalla scena di un ragazzo che, seduto accanto ad una porticina sul retro di un locale, stava lavando una grossa pentola. La schiuma bianca del detersivo scivolava per terra insieme all’acqua, creando ghirigori. Un altro ragazzo ci era sfrecciato accanto in bicicletta, con dei grossi pacchi tenuti in equilibrio sul portapacchi posteriore. 

Nel buio fitto di sfumature di nero, grigio e blu cupo, quadri illuminati d’oro e d’arancio creati dalle finestre dei locali, all’interno dei quali ogni tanto si notava un’ombra in controluce. Poi, d’improvviso, una figura minuta che si affretta lungo il selciato. I miei compagni di viaggio iniziano a scattare foto, alcuni le si mettono davanti, la donna li sorpassa velocemente, con un’occhiata un po’ seccata. Io resto paralizzata, la osservo camminare con il fiato sospeso e gli occhi che mi pizzicano di commozione. Tiro fuori la mia macchina fotografica, come tutti hanno fatto poco prima, sentendomi sciocca, l’unica fessa che non coglie l’occasione. Provo a fare una foto, dall’angolo ormai lontano in cui mi trovo e in cui mi sono ritirata non appena ho visto la geisha passare, con un senso di colpa incredibile. Non si vede niente, se non un’ombra sfocatissima.

Lei indossava un kimono viola scuro, aveva un viso affilato, dalla forma a mandorla. Il balenare candido del viso, in tutto quel gioco di ombre intorno, mi ha ricordato una sottile falce di luna che spunta per un istante in un cielo notturno un po’ nuvoloso. Grandi occhi neri leggermente allungati, l’espressione seria. Scorre via con i suoi piccoli passi rapidi, come un sogno.

Proseguendo nella camminata con il gruppo, la noto di nuovo, lontana, sotto i portici lungo la via principale, mentre sale su un taxi. Mi prende una strana malinconia, penso che non è stato giusto averla importunata in quel modo, poco prima, e che il mondo che lei rappresenta sarà sempre qualcosa che per sopravvivere nel suo essere più autentico deve anche mantenersi separato, appena discosto nell’ombra, mai afferrabile del tutto. Ho quella sensazione che non potrò mai conoscere del tutto quel mondo, e, per esteso, lo stesso Giappone. Forse era l’inizio di quell’anelito, di quel non so che, comune a tutti quelli che si lasciano prendere dalla passione per la cultura giapponese.

Quanto le geisha rappresentano merita tuttavia al tempo stesso di essere conosciuto, per smettere di caricarlo delle idee sbagliate che spesso in occidente si creano sul loro ruolo.

Contraddizioni. Qualcosa che per continuare ad essere affascinante deve restare in gran parte mistero, eppure al tempo stesso qualcosa che per continuare ad essere deve anche mostrarsi più chiaro, più accessibile. Perdere man mano il suo aspetto più elitario per poter parlare al senso del bello e all’amore per la tradizione di tutti. Con il rischio tuttavia di diventare l’ennesima attrazione turistica.

Io stessa non so darmi una risposta in merito a tale dilemma, e forse non esiste proprio, una risposta. Forse l’unica davvero valida sarebbe sviluppare nelle persone maggior rispetto ed empatia.